cavalicco friuli mondo
Elena Commessatti racconta Moroso
edizione Il Sole 24 Ore, 2007
(zio) MARINO MANSUTTI: Quando sei con lui, e lo vedi lavorare, hai la sensazione di essere davvero in un campo mitologico, al punto di partenza di una storia che non è solo la sua.
C’è l’idea dell’artista, il designer, quella dell’azienda, che deve vendere il prodotto e renderlo industriale, si alza il coro di ingegneri-assistenti-tecnici-commerciali-responsabili di tutto il viaggio fuori da lì, intorno al mondo e alla velocità. Arrivano le onde dei cambiamenti, delle prove, dei destini degli oggetti che cambiano identità passando nelle sfumature, negli accorgimenti, nelle riduzioni. Eppure tutto parte da lui, da Marino, dalla capacità di interpretare. Esattamente. Il viaggio dello zio Marino è una sfida: entrare nella mente del designer. Così come Patrizia, sua nipote, possiede la maieutica nel far uscire idee vincenti, tanto Marino trova la forma degli oggetti. Poltrone, divani, tavolini, e quelli che da un po’ di anni sono
“i complementi d’arredo” che accompagnano il prodotto.
Ora sono plastiche, poliuretani espansi, ovatte, piume, le parti morbide dell’imbottito. E dei pensieri.
“Facevo e disfavo, facevo e disfavo in una notte per imparare tutto. Non mi piace essere secondo, sono curioso.”
“Noi il salotto lo facevamo la mattina, la sera lo consegnavamo.” Storia epica, eroica, come quella di sua sorella Diana, inseparabile compagnia di Agostino, e storia di Agostino stesso, primo fra tutti.
Lui, che alla America aveva detto no: “ In America non ci vado, voglio stare qui e mettermi in proprio.”
“Io la gioventù non l’ho conosciuta”, racconta Diana, “ho cominciato a lavorare a quattordici anni.” Ancora bambina andava a piedi, da Tullio Pio, a Tricesimo, dopo aver fatto all’alba i lavori di casa. E tornava a casa sì per cinque minuti a ingollare cibo e poi via di nuovo ai fili e agli aghi. Diana, dea cacciatrice, non di dote, ma di amore e fedeltà. Diana cacciatrice di fatiche, al fianco di Agostino, ogni giorno ancora in fabbrica. Tutti e due, dalle otto. Lui controlla la produzione, fa il giro degli operai, non gli sfugge un ritardo, un difetto di un prodotto. Controlla i cuscini, la foderatura, le ragazze del cucito. I ritmi di una catena che ha un ordine che conosce.
È quest’anima che Agostino Moroso conserva ancora della sua Moroso. Qualità e tempismo. Ed è un re, indiscusso, della sua personalissima America.
“Eravamo capaci di lavorare tutta la notte, di consegnare e poi partire.” Era bello vedere all’alba il camion che partiva, recita la filastrocca a firma Luca Sossella, nel libro “40 anni, istruzioni per l’uso.” “Quanto, quanto abbiamo lavorato e quanto ci siamo divertiti.” Quanto?
Alide Stulin, energica figura dell’azienda, responsabile del reparto del cucito, che dal ’74 dà l’anima alla Moroso, di Diana dice. “I Moroso sono umani perché conoscono la fatica di lavorare.” Alide ha sotto di sé trenta ragazze, al cucito. È l’altra parte dell’azienda che fa onore al mondo per l’esattezza dei dettagli. Le ragazze cuciono come fossero in un atelier di alta moda, una boutique. L’ingegner Gortani afferma: “siamo un’industria artigianale.” Le famose PMI, eccola qua.
Piccole piccole, con la tendenza a dichiararsi tali anche per narcisistico vezzo.
“Siamo una piccola media impresa che è un atelier di lusso.” Ecco qua l’orgoglio, è arrivato. Finalmente.